Il massacro di Graziani
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Il più grande crimine commesso dagli Italiani in Etiopia è stato probabilmente il cosiddetto massacro di Graziani. Dopo un attentato alla vita di Graziani nel 19 febbraio 1937 da parte di due giovani Etiopi, gli Italiani reagirono violentemente ed indiscriminatamente in tutto il Paese, come appare dal seguente documento.
Io sottoscritto Dejazmach Rosario Gilagzi, età 51 anni, professione Capo Archivista in pensione, indirizzo Via Napoli 37, Asmara, con la presente presto il mio giuramento e dichiaro quanto segue:
Ero presente il 19 febbraio 1937 quando Graziani intendeva distribuire elemosine al Palazzo. Alle 8 del mattino mi recai lì con il Dejazmach Haile Selassie Gugsa. La prima persona che vidi era il Sindaco Palavecino e gli presentai Haile Selassie Gugsa.
Palavecino mi chiese di portare Haile Selassie Gugsa da Marciano, un interprete ufficiale Italiano, che avrebbe dovuto presentare Haile Selassie Gugsa a Graziani, con il quale Haile Selassie Gugsa voleva complimentarsi. Dopo che la presentazione ebbe luogo ero stanco. Vedevo le persone fuori del Palazzo che aspettavano di ricevere le elemosine, ma mi recai con un amico, Kidane Abraham, e con il Dottor Ricoveri, in un altro angolo del Palazzo.
Stavamo parlando dell’Eritrea quando, all’improvviso, sentimmo un’esplosione. Questa deve aver avuto luogo subito dopo le 13 (1 p.m.), dato che vedemmo gli aerei appena decollare, che di solito partivano alle 13. Quando sentimmo quell’esplosione pensammo che si trattasse di un colpo di pistola, così presumemmo che la celebrazione fosse terminata e ci incamminammo verso il posto. Riscontrammo una grande agitazione, perché alcune persone correvano verso il Palazzo, mentre altre cercavano di uscire dal complesso del Palazzo. Il mio capo, Conte De la Porta, mi ordinò di uscire con alcuni preti Etiopi e tentammo di raggiungere il Cancello Nord; ma quando arrivammo i soldati Italiani erano lì appostati e ci fermarono. I soldati Italiani ci dissero che avevano l’ordine di sparare ogni Etiope che cercava di uscire attraverso il cancello, così dovetti ritornare indietro con i preti e li rinchiusi nella cantina sotto alcuni uffici vicini ed ordinai ad alcuni inservienti di cercare lì protezione ed io presi posizione insieme al soldato Italiano di sopra. Dopo arrivarono soldati con armi e bombe a mano in cerca di Etiopi in tutto l’edificio. I preti e gli inservienti erano nascosti, e riguardo a me il soldato spiegò: “Lui è un Eritreo. E’ venuto in servizio e non deve essere importunato.” Mentre mi stavo prendendo cura dei preti sentii sparare fuori l’edificio del Palazzo: le macchine correvano di qua e di là, le persone scappavano, mitragliamenti, c’era un gran disordine – gli Etiopi che fuggivano dagli Italiani e gli Italiani che fuggivano dagli Etiopi. Gli Italiani apparentemente sospettavano che i ribelli si erano diretti in città. Era stato detto in precedenza che Ras Desta avrebbe minacciato la città e che i patrioti Etiopi sarebbero arrivati ed avrebbero ucciso ogni Italiano.
Rimasi a Palazzo fino alle 16. Alle 16 alcuni ascari arrivarono e mi portarono al Ghebbì, dove Conte De a Porta arrivò con il Capitano Bechis. Dopo portai i preti dalla cantina in una grande stanza nel Palazzo. Fu emanato l’ordine che chiunque fosse uscito dal Palazzo senza un permesso scritto doveva essere fucilato. Prima dell’attentato a Graziani esisteva un ordine permanente ufficiale conosciuto dagli Italiani che prevedeva che, se i ribelli entravano in città, ogni Etiope doveva rimanere nella propria casa; chiunque veniva trovato circolare per le strade doveva essere sparato.
Della Porta e Bechis mi condussero in una macchina ed andai con loro al quartier generale dei fascisti, perché De la Porta, che era un fascista, aveva ricevuto l’ordine di recarvisi. Lì incontrammo il Segretario Federale Guido Cortese, ed un buon numero di fascisti era presente. Cortese si indirizzò a loro dicendo: “Camerati, oggi è il giorno in cui dobbiamo dimostrare la nostra devozione al nostro Vicerè reagendo e distruggendo gli Etiopi per tre giorni. Per tre giorni vi do carta bianca nel distruggere, uccidere e fare tutto che vorrete agli Etiopi.”
Uscirono ben forniti di armi ed iniziarono il loro lavoro. Le persone che non erano state arrestate dai carabinieri e che venivano trovate nelle loro case o nelle strade vennero uccise. Andai insieme a De la Porta ed Avolio, direttore superiore degli affari politici di tutta l’Est Africa, in macchina, e vidi con i miei stessi occhi bruciare case e sentii gli Italiani gridare “civiltà italiana”. Vidi alcuni giovani ragazzi uscire dalle case in fiamme ma gli Italiani li spinsero indietro nel fuoco. Successivamente andammo al lato ovest della Città al Ponte Habte Ghiorghis. Da quel ponte vedemmo i soldati distruggere case ed uccidere persone. Nella parte occidentale non una singola casa venne bruciata. La Legazione Americana riunì tutti i suoi vicini nel suo complesso. Un maresciallo dei carabinieri (al quale non era piaciuto l’ordine di Cortese) ci fermò sul ponte, dicendo: “Non voglio nessun aiuto dalle camicie nere, farò da solo.” Da lì andammo all’ex Legazione Belga dove Avolio viveva e dopo a casa di De la Porta alla fine della strada chiamata Duca di Harar. In questo viaggio vedemmo bruciare case. Ricordare tutto è difficile perché persi quasi i miei sensi nell’assistere a quello che stava accadendo.
Il giorno seguente, Sabato, gli Italiani continuarono a bruciare case di piccole dimensioni. Sulle case più grandi scrissero i loro nomi per appropriarsene. Abbattevano le porte e iniziavano a saccheggiare. Non riuscivano a trovare una singola persona da uccidere; le persone che non erano state uccise o furono arrestate o fuggirono. Dissero che era “igienico” distruggere case di piccole dimensioni così continuarono a distruggere tutto. Durante il giorno non mi fu possibile uscire, ma durante la notte uscii con De la Porta in macchina. Circa alle 6 .30 del pomeriggio vedemmo fiamme dalla benzina quando cercarono di incendiare la Cattedrale di San Giorgio. Le finestre si ruppero per il calore, ma l’edificio resistette.
Il giorno seguente, Domenica, cercarono di bombardare la Cattedrale, ma la sera dello stesso giorno fu ricevuto l’ordine da Graziani di fermare tutto e così quell’ordine non fu eseguito. Graziani inviò un messaggio che diceva: “Per grazia di Dio mi sento bene. Arrestate le ostilità.” Venerdì sera fui chiamato a Palazzo dal presidente della Corte Militare, il Generale Olivieri, per fare da interprete. Le persone che vennero portate di fronte alla corte furono fucilate.; in seguito venni a conoscenza che 62 persone furono uccise. Mi chiesero cosa pensavo dell’attentato contro Graziani ed io risposi: “E’ un atto compiuto da alcune persone, ma non si tratta di una congiura del popolo, e per questo non avreste dovuto punire il popolo in massa.” Questo dissi a Carlo Avolio e Gerardo De la Porta. Quando fui chiamato come interprete dal Generale Olivieri, questi iniziò a chiedere ad uno dei prigionieri, Mesfin Kalema Work, se era lui l’uomo che aveva inviato un telegramma alla Lega delle Nazioni, dicendo che gli Etiopi avrebbero formato un governo a Gore. E Mesfin Kalema Work disse che era lui. Olivieri gli chiese come avrebbe potuto farlo, dato che gli Italiani avevano occupato Addis Abeba e gli chiese dove si trovavano i suoi seguaci. Dissi ad Olivieri: “ Sono venuto qui ad assistere all’inchiesta sull’attentato a Graziani. Se chiederai cosa è avvenuto prima di questo non ti aiuterò, e sei non sei soddisfatto del mio lavoro andrò via.” E tornai a casa di De la Porta.
Domenica mattina fui mandato a Palazzo per unirmi ad un comitato per investigare sui responsabili dell’attentato. Alcuni Etiopi furono selezionati:
Lij Likaunt Gabrè-Ab, presidente,
Negeras Wodajo Ali,
Blatta Ayele Gabrè,
Ato Berhane Markos,
Bejirond Feccrè Selassie.
Il compito del comitato era quello di individuare chi lanciò le bombe, e scoprimmo che erano stati due uomini: la prima bomba fu lanciata da Abraham Debotch, la seconda da Moghes Asghedom. Questi ultimi scapparono ma furono uccisi in seguito durante alcuni combattimenti di patrioti.
Riportai soprattutto le parole di Cortese; scoprii in seguito che fu Graziani stesso a dare l’ordine di carta bianca per tre giorni, e sentii anche dire che Graziani a sua volta aveva ricevuto l’ordine da Mussolini. I miei superiori Avolio e De la Porta me lo dissero.
Venerdì, quando furono lanciate le bombe a Graziani, qualcuno inviò un telegramma a suo nome. La risposta arrivò sia Venerdì sera che Sabato mattina, confermando l’assassinio. Non aspettarono, tuttavia, la risposta di Mussolini.
Avolio e De la Porta andarono di Venerdì da Petretti che era un vice di Graziani. Li seguii in macchina da Petretti; ma io e De la Porta rimanemmo fuori. “Staremo a vedere cosa farai”, Avolio disse a Petretti; e Petretti riferì a Graziani in ospedale. Sono a conoscenza del fatto che Petretti andò da Graziani perchè Petretti lo disse ad Avolio e quest’ultimo me lo raccontò. Andammo un’altra volta, di Sabato, da Petretti. Sia Venerdì che Sabato volevamo scoprire cosa aveva detto Graziani, ma Petretti rispose solo:” Questi uomini sono barbari e niente può essere fatto.”
Estratto da “Documents on Italian war crimes submitted to the United Nations War Crimes Commission by the Imperial Ethiopian Government” – Vol. II Published by command of His Imperial Majesty – Ministry of Justice , Addis Ababa, 1950.